Normativa pausa pranzo: cosa prevede la legge per il part-time 6 ore e per chi lavora 8 ore?
Chi ha diritto alla pausa pranzo e qual è la normativa che si applica in caso di part time a 6 ore? Cosa stabilisce la legge sulla pausa pranzo per i turnisti e per chi lavora 8 ore di seguito? La regolamentazione delle pause sul lavoro è contenuta in un testo di legge del 2003 [1] secondo il quale, tutte le volte in cui l’orario di lavoro giornaliero supera le 6 ore, il dipendente ha diritto ad una pausa finalizzata al recupero delle energie psico-fisiche, all’eventuale consumazione del pasto e all’attenuazione del lavoro ripetitivo e monotono. La durata e la modalità della pausa sono in genere stabilite dai contratti collettivi. Se i contratti collettivi non dispongono nulla a riguardo, il lavoratore ha diritto a una pausa – anche sul posto di lavoro – non inferiore a 10 minuti consecutivi. È tuttavia il datore di lavoro a scegliere a partire da quale momento far iniziare la pausa tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro tenendo conto delle esigenze aziendali; potrebbe quindi scegliere qualsiasi momento della giornata e non per forza allo scadere esatto delle 6 ore di lavoro. Pertanto, nel caso di un lavoro che preveda la cosiddetta “giornata spezzata” (ad esempio: 8,30-12,30/13,30-17,30), la pausa può coincidere con il momento di sospensione dell’attività lavorativa (pausa pranzo).
Ma procediamo con ordine e vediamo a chi spetta la pausa pranzo.
Indice
· 1 Pausa pranzo part time 6 ore
· 2 Buoni pasto part time 6 ore
· 3 Lavoratrici in allattamento
· 5 Rinuncia alla pausa pranzo
Pausa pranzo part time 6 ore
Con una risposta che, di recente, il Ministero del Lavoro ha dato a un interpello [2], viene chiarito qual è il regime della pausa pranzo per chi lavora con un part time.
Il dipendente che lavora meno di sei ore a giorno non ha diritto alla pausa pranzo o al servizio mensa aziendale.
Buoni pasto part time 6 ore
Per la stessa ragione il lavoratore con meno di 6 ore al giorno non ha neanche diritto ai buoni pasto poiché questi sono sostituitivi del servizio mensa.
Il servizio mensa è uno degli esempi di retribuzione in natura. Ricordiamo che la mensa aziendale consiste nel mettere a disposizione dei dipendenti un servizio pasti durante l’intervallo di lavoro e può essere realizzato con le seguenti modalità:
· mensa aziendale interna con gestione propria o affidata in appalto ad apposita società;
· mensa esterna presso apposite strutture;
· buoni pasto di un determinato valore, da utilizzare in esercizi convenzionati.
I buoni pasto, che possono essere utilizzati anche quando l’orario di lavoro non prevede una pausa per il pasto:
· sono incedibili;
· possono essere cumulati per essere usati contemporaneamente fino al limite di 8;
· non possono essere commercializzati o convertiti in denaro;
· sono utilizzabili solo dal titolare esclusivamente per l’intero valore facciale.
Il diritto ai buoni pasto spetta tanto nel caso in cui durante la fascia oraria concordata per il pranzo egli sia impegnato al lavoro, quanto nel caso in cui egli abbia terminato di lavorare, ma i tempi di percorrenza non gli consentano di raggiungere la propria abitazione entro l’esaurirsi di tale fascia oraria.
Lavoratrici in allattamento
L’interpello del Ministero chiarisce che non hanno diritto né alle pause pranzo né ai buoni pasto neanche le lavoratrici che, godendo dei relativi riposi giornalieri per allattamento (due ovvero un’ora giornaliera, anche cumulabili, a seconda che l’orario di lavoro sia o meno superiore a sei ore) lavorano meno di sei ore al giorno (in particolare cinque ore e 12 minuti). Quando si supera questo limite invece scatta il diritto alla pausa pranzo.
I due istituti (riposi per allattamento e pausa pranzo), ha spiegato il ministero, hanno scopi distinti: il primo è volto a favorire la conciliazione tra la vita professionale e vita familiare; il secondo è finalizzato al recupero delle energie e all’eventuale consumazione del pasto con la relativa norma che non sembra lasciare dubbi circa il riferimento ad attività lavorativa effettivamente prestata. Ciò premesso, secondo il ministero è da escludere che una presenza effettiva della lavoratrice nella sede di lavoro per cinque ore e 12 minuti dia diritto alla pausa. Pertanto, non si deve procedere alla decurtazione dei 30 minuti dal totale delle ore effettivamente lavorate dalla lavoratrice.
Pausa pranzo: cosa rileva
Ai fini del riconoscimento della pausa giornaliera è del tutto irrilevante che il lavoratore usufruisca di una struttura operativa munita di sale relax o punti di ristoro, la quale previsione risponde ad altre esigenze di tutela; tantomeno rileva la fruizione della pausa durante la consumazione del pranzo dal momento che i dipendenti usufruiscono dei buoni pasto. Nemmeno rilevano le attese ed i periodi di inoperatività lavorativa fisiologicamente correlata alla tipologia di lavoro svolto, perché nonostante questi, il lavoratore permane pur sempre in un regime di disponibilità del datore, e dunque non si verifica a livello psicologico quel mutamento consapevole tra l’inizio e la fine del lavoro propriamente inteso [2].
Anche durante la pausa pranzo il dipendente si considera “al lavoro” se, in questo frangente, il datore adotta nei suoi confronti delle condotte persecutorie. A dirlo è la Cassazione [3]. Nel caso di specie, si trattava del responsabile del servizio cultura di un comune addetto alla gestione della biblioteca il quale aveva posto in essere una persecuzione professionale tradottasi in violenze morali e atteggiamenti oppressivi a sfondo sessuale. Per la Corte, anche se parte delle azioni persecutorie erano state messe in atto durante la pausa pranzo o al di fuori dell’orario di lavoro, l’esercizio delle funzioni pubbliche ha agevolato il danno nei confronti della persona offesa e, perciò, sussiste la responsabilità del Comune.
Rinuncia alla pausa pranzo
In tema di riconoscimento del lavoro straordinario, la rinuncia al diritto alla pausa pranzo, determinata da specifiche esigenze organizzative datoriali o dalla determinazione del lavoratore, in assenza di un espresso dissenso del datore di lavoro comporta, difatti, l’obbligo del datore di lavoro di pagamento del corrispettivo della prestazione [4].
note
[1] Art. 8 d.lgs. n. 66/2013; Circolare Min. Lavoro n. 8 del 3 marzo 2005.
[2] Trib. Cassino, sent. n. 64/2018.
[3] Cass. sent. n. 34836/2017.
[4] Trib. Milano, sent. del 6.05.2015.